Lucio Piccolo, l' ultimo poeta barone  Ritorna
Simile a un Beatles del ' 600, riceveva in un salone buio pieno di oggetti bizzarri, barocco come i suoi versi Seduto sulla poltrona di broccato leggeva poesie affollate di fantasmi Era geloso dei successi del cugino Tomasi di Lampedusa ma fu lodato da Montale

Lucio Piccolo, l'ultimo poeta-barone. Simile a un Beatle del '600, riceveva in un salone buio pieno di oggetti bizzarri, barocco come i suoi versi. Seduto sulla poltrona di broccato leggeva poesie affollate di fantasmi. Era geloso dei successi del cugino Tomasi di Lampedusa ma fu lodato da Montale. La busta era finita fuori posto in mezzo ai libri della biblioteca. Tra Gaio Secondo Plinio, Giaime Pintor, Karl Polanyi e Pasolini. Sarebbe stato contento di quella compagnia cosi' eclettica, Lucio Piccolo barone di Calanovella? Nella busta che avrebbe dovuto trovarsi in mezzo ai suoi libri - Canti barocchi, Gioco a nascondere e Canti barocchi, Plumelia e anche Ricordo di Lampedusa, di Francesco Orlando - era conservato un pacchetto di lettere, di cartoline postali, di cartoline illustrate che il barone poeta mi invio' tra il 1964 e il 1968.

Tra le carte della busta gialla era riposto anche il ritaglio di un settimanale, con la fotografia del poeta fatta da Melo Minnella, quasi un'immagine da museo della mia memoria. Chissa' quali fantasie, lambiccamenti, sospetti di complotto, ironie, maldicenze, divertimento anche, gli avrebbe suscitato quell'impercettibile muoversi della busta tra gli interstizi di carta della mia biblioteca. Un gioco a nascondere post mortem. Avevo conosciuto Lucio Piccolo nei primi anni Sessanta. Dopo la pubblicazione del romanzo di Giuseppe Tomasi di Lampedusa avvenuta nel 1958, la moda dei Gattopardi era dilagata. Scesi anch'io, giovane giornalista, a Palermo per incontrare i principi, i baroni, i discendenti dei vicere' che parlavano con stoico distacco delle cose del mondo come se la vita fosse un muoversi di energie dissennate che non li riguardava per nulla.

Il loro era un mondo morto e sepolto, ma pieno di fascino incantatore. Una rappresentazione figurata del romanzo di Lampedusa, con tutta la sua supponenza reazionaria, il nonsipuotismo scettico e compiaciuto, il senso della superiorita' siciliana che non riesce quasi mai a esprimere le ragioni del merito e delle opere ritenendole probabilmente congenite. Impeccabili nei modi, incuriositi da quegli strani esseri venuti dal Continente che in qualche caso li trattavano alla pari, principi e baroni erano rimasti turbati dal successo del Gattopardo. Il piu' tramortito e forse il piu' ingelosito per la fama postuma - Lampedusa era morto nel 1957 - piovuta sul capo del cugino con cui aveva passato la vita, a lui vicino anche nella passione letteraria, era proprio Lucio Piccolo. Nel 1954, aveva gustato per primo il nettare del successo e ora si doveva sentire come nel gioco dell'oca. Retrocesso, cancellato.

Quando lo incontrai la prima volta nella sua villa dei primi del Novecento a Capo d'Orlando, tra Palermo e Messina, e gli chiesi se non era stanco di sentirsi citare come il cugino di Lampedusa, mi aveva risposto con tutto il suo orgoglio ferito. E' doveroso ricordare, mi disse, che Lampedusa era un cugino di Piccolo. Appariva candido e insieme malizioso. Nel 1954 aveva spedito a Montale un libriccino color marrone stampato nello Stabilimento Progresso di Sant'Agata di Militello, intitolato 9 liriche. Montale l'aveva letto. Convinto che lo sconosciuto poeta fosse un giovane - era nato invece nel 1903 - decise di presentarlo al convegno di San Pellegrino Terme dedicato alle diverse generazioni delle poesia dove Piccolo era arrivato con il corpulento cugino Lampedusa e con un servitore tutto vestito di nero che aveva portato con se', per non far mancare ai due signori l'aria di casa, anche le lenzuola. Piccolo era un uomo coltissimo, studioso di filosofia, conoscitore della poesia europea vecchia e nuova, uno che aveva davvero letto tutti i libri nelle loro lingue originali. Per Lucio fu l'incoronazione.

Le benedicenti parole di Montale posarono l'alloro sul suo capo: "Il suono del corno che ci giunge dal Capo d'Orlando non e' l'Olifante di un sopravvissuto, ma una voce che ognuno puo' sentire echeggiare in se". Sembrava un Beatle secentesco, il barone di Calanovella seduto sulla sua poltrona di broccato e velluto dai braccioli consumati. O anche un trepido Marcel Proust degli anni di gioventu'. Con il cane Puck sulle ginocchia appariva simile, anche nell'amore canino, al cugino Lampedusa e alla sua cagnetta Poppy. Amabile e gentile, riceveva nella grande sala all'ingresso della villa, tra i cassettoni Luigi XVI, una dormeuse dimenticata in un angolo, un pianoforte a coda, un vecchio tavolo con le gambe a torciglioni, gremito di vasi Ming e di statuette orientali a forma di anitre, galli e galline. Appesi ai muri, tutt'intorno, un monetario siciliano di ebano e di avorio, vetrine colme di porcellane e un gran numero di ritratti e di busti di antenati, due vicere', cardinali, beati, capitani dell'Inquisizione, badesse. Piccolo mi parlava dalla sua poltrona nel buio piu' assoluto della stanza: solo qualche listello di luce penetrava dalle fessure delle persiane insieme con un profumo di gelsomino cosi' intenso da dare il sospetto di qualche rito misterioso.

Non parlava mai di politica, non era curioso della societa', il filtro del mondo era per lui soltanto quello rappresentato dai libri, soprattutto l'amata poesia. Gridava come un ossesso, il poeta barocco che appena poteva leggeva i suoi versi: "I morti non hanno cifre per i nostri tesori, singulti hanno in noi, veglie di fiamme...". Spaventato com'ero dalle grida e dai fantasmi di morte stavo immobile, seduto davanti a lui, perche' il poeta, senza darlo a vedere, riprovava se appena facevo qualche minuscolo gesto. "Brulichio del buio che si cerca senza posa, parlottare fatuo nell'aria...". Aveva una voce forte e insieme carezzevole che doveva riuscire a incrinare anche la terra sciroccata dello spiazzo di fuori, il giardino, il cimitero dei cani dai nomi arabi, Ali' Faruk Muhammed Mustafa' Omar Mamoud.

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Tornai piu' volte in quella sala, conobbi il fratello Casimiro e la sorella Giovanna, mi fermai a cena, riuscii a evitare di dover dormire in una stanza di villa Vina dove venivo invitato dal barone Casimiro con un sardonico sorriso di sfida. Dipingeva gnomi abitatori dei boschi, vedeva gli spiriti, un gatto trasparente nell'aria, una volta, e un'altra volta, lui fotografo provetto, manco' per un soffio di secondi il vecchio cane Ali' morto tanti anni prima e venuto a salutare. Lucio Piccolo usava ironia nei confronti del figlio adottivo di Lampedusa, Gioacchino Lanza, il Tancredi del romanzo, e detestava Francesco Orlando. A me sembrava che avesse scritto un piccolo Tonio Kroger doloroso e bellissimo, anche se incompiuto, con quel suo Ricordo di Lampedusa.

Glielo dissi. Quella volta rischiai la scomunica, il poeta sembrava l'indispettita antenata badessa. Poi Lucio Piccolo comincio' a scrivermi lettere e cartoline, bottiglie lanciate nel mare. Che cosa si diceva di lui a Milano? Che cosa diceva Quasimodo, che cosa diceva Montale? Non si diceva nulla a Milano. Nel mondo delle lettere il suo nome era gia' stato seppellito. 8 novembre 1965. "Ho letto nell'Album di Phillips, a parte che gli sono grato per il posto datomi nell'attuale poesia italiana. Trovo impietoso per quanto dice dei poveri parlermitani. (...) E Montale? Si e' dato a un completo silenzio". 12 settembre 1967. "Ho scritto una sorta di narrazione fantastica volutamente barocca e ingenuamente romantica. L'esequie della luna, opera piu' che altro nostalgica. A un vicere' spagnolo e burattino - solito ritratto d'antenato - viene annunziato che la luna e' caduta nel suo vicereame. Da li' tutto si sviluppa. Non e' altro che la visione di Palermo come la vedevo da bambino (...)". 4 giugno 1968. "Lettera riservatissima e maligna". "(...) Ha visto l'Antologia dell'(...) prof. Contini? E qui sono indispensabili e doverose alcune parole di chiarificazione e giustizia verso il sottoscritto autore della presente Epistola. Potrebbe qualcuno dire: il signore se la prende cosi' calda perche' ambizioso e vanitoso com'e' avrebbe amato vedere il suo piccolo nome allineato coi grandi (?) dell'Italia (...). Ora il Piccolo (...) si sarebbe sentito a disagio, shy in mezzo a si' pomposi personaggi. Egli non e' che un Freiherr, un milite gerosolimitano (della specie piu' alta pero') soggetto solo a S.A. Eminentissima il Gran Maestro (...). Non le sembra addirittura scandaloso e offensivo per la nostra collega isola Sardegna l'assenza di Grazia Deledda? + quello che mi ha fatto toccar con mano, per cosi' dire, tutto il ghiribizzoso e sostanzialmente ridicolo del costoso e ponderoso volume. E il povero Bontempelli squagliato come sale nell'acqua? (...)". Era esacerbato, Lucio Piccolo. Dopo lo scritto di Montale, prefazione ai suoi Canti barocchi usciti nella collana "Lo specchio", era stato ingiustamente dimenticato. Nessun'altra alta voce critica aveva preso in esame le sue poesie, a differenza di quel che era successo per il romanzo del cugino celebrato oltremisura, usato per alimentare i cinismi nazionali in pillole. L'ultima cartolina era datata 23 ottobre 1968. "Dolente di non aver potuto conversare con lei nella tempesta etnea di Zafferana, un saluto affettuoso da parte del poeta d'un altro pianeta". Era gia' una voce d'Oltretomba. Mori' il 26 maggio 1969.

Corrado Stajano